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Quello che non siamo in grado di cambiare dobbiamo almeno descriverlo (R. W. Fassbinder)

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A pesca d’inverno

Il motore stamattina per il freddo nemmeno parte al primo colpo, al quarto tentativo mi dico: “Se non parti ora me ne torno a casa”, invece parte con una sbuffata di fumo grigio; mollo gli ormeggi e vado. Quando esco in mare di mattina presto mi pare sempre di essere il primo a violarne la superficie così mi piace andare lento, con circospezione per non disturbare e nemmeno accelero, che poi accelerare non è il termine giusto che sopra i sette nodi non vado; d’altra parte il mio è un gozzo che si rispetta non come quelli di adesso che li fanno plananti e navigano alti sulla prua come motoscafi.
L’alba me la lascio alle spalle e alle spalle mi lascio la città dicembrina, fredda e immobile come un presepe. Oltrepasso la punta e la falesia, all’altezza della spiaggia spengo il motore e mi lascio trasportare dalla corrente. Si pesca così a seppie, senza motore, tutt’al più con i remi per aggiustarsi un poco. Una pesca facile; un’esca artificiale calata sul fondo e fatta saltellare a mezzo di piccoli strappi alla lenza; la seppia la scambia per un gambero e vi si lancia sopra senza vedere la corona di aghi che la cinge e vi rimane infissa. Qui dove sono ne prendo quattro, quando escono dall’acqua sputano inchiostro facendo “frrr” . La barca nel suo vagare alla deriva esplora buona parte della baia, più avanti c’è un promontorio dove di seppie ce ne sono sempre state, metto in moto e ci dirigo; ne prendo altre tre. Controllo le esche, le ripulisco dalle alghe, le calo giù; nessun rumore, ho gesti silenziosi e meccanici, da film muto; il mondo adesso è racchiuso tra una poppa e una prua.
Tira una lama fredda di vento freddo; abbottono il giaccone come si deve e calo il cappello sugli occhi. Scivolo lento su questa tavola d’acqua; dal cielo grigissimo filtra un raggio di sole, questo.

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Porto vecchio

Una linea di riva ha senso se la vedi come un filo da seguire. E’ un percorso di conoscenza, una sorta di maturazione interiore, e allora non avere paura se alla rassicurante battigia si sostituisce la falesia orrida o gli scogli aguzzi su cui mai metteresti i piedi; fallo invece e dopo un promontorio potresti incontrare un porto vecchio come il mio con barche e barchette e i pescherecci che escono la notte e rientrano il pomeriggio.
E’ una darsena riparata a levante ma non a ponente così lo scirocco la prende d’infilata e più d’uno ho visto guardare la propria barca andare a fondo senza potere far nulla se non recuperare quanto rimasto a galla; relitti ora sono che quando l’acqua è cristallina ne vedi gli scalmi e i legni di poppa ricoperti di alga e pesciolini e granchi a perlustrare i gavoni. Il mare non lascia traccia dietro di sé, né lo si può abbracciare o stringere; nemmeno la mera deriva ci può salvare; una direzione, giusta o sbagliata, bisogna tenerla.
La mia barca per ora è a galla, forse per una sorte bonaria di cui sono inconsapevole e che ancora non mi ha voltato le spalle; così tutt’ora mi affanno a regolare le cime e a controllarne l’ormeggio ma quando il mare vorrà, già so, la spazzerà via; mi dicono c’è stato un anno che tutte le barche di qui il mare le ha sollevate e lanciate sulla strada e nessuna si è salvata.
Il porto vecchio che per tutta la mattina è rimasto deserto il primo pomeriggio si anima; prima i più vecchi (piuttosto che averli in casa le mogli li mandano giù al porto), poi i curiosi, i gatti e le donne dei pescatori; aspettano l’arrivo dei pescherecci.
Mi piace il concetto del ritorno; vuol dire che il viaggio è compiuto, la scommessa vinta, che ne valeva la pena.

Sempre devi avere in mente Itaca
raggiungerla sia il pensiero costante.
Ma soprattutto, non affrettare il viaggio:
fa’ che duri a lungo, per anni, e che da vecchio
tu metta piede sull’isola

raccomanda ad Ulisse Costantinos Kavafis.

Un punto appena percettibile all’orizzonte; un ragazzo che parlotta con l’amico guarda quel pulviscolo di gabbiani lontano e lo identifica subito. “E’ tornato papà” dice, poi salta sul barchino e si dirige verso il centro della rada per dare assistenza al peschereccio del padre che è tornato.

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Un uomo in barca

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Non sono stati mesi facile quelli passati; per un verso o per un altro ho avuto sempre qualcosa da inseguire spesso più veloce di me così il tempo è passato tra ricerche di scorciatoie, accelerazioni e brusche frenate.
Eppure sono ancora qui, forse più stanco e cinico ma ancora qui a cominciare una nuova stagione di pesca. Avrei voluto farlo prima ma il meteo ci ha messo del suo e ora il vento ora la pioggia mi hanno fatto desistere. Ieri invece le previsioni erano buone così ho fatto rifornimento di gasolio, sistemato canne e lenze e preso le esche.
Eppure anche stamattina all’alba giù al porto c’era pioggia, una pioggerellina leggera che quando l’ho vista mi è venuto da sorridere per questa sorta di sfida che anche oggi sembravo aver perso; ma al bar mentre prendevo il caffè aveva già smesso così ho preso il largo.
Di nuovo in barca dopo un anno; è una sensazione strana almeno lo è per me. Abituato ad avere una strada davanti ora non ne ho nessuna eppure mentre mi tengo in equilibrio e reggo il timone mi pare di andare verso un appuntamento stabilito, un ritorno alle origini, di indossare un abito della mia misura. Rotta 105°, l’orizzonte dopo l’alba è una lama tagliente; io gli vado incontro.

Una scheggia nella mano

“ Chiamatemi Ismaele. Alcuni anni fa – non importa quanti precisamente – avendo poco o punto denaro in tasca, e nulla in particolare che m’interessasse a riva pensai di prendere il largo per un po’ e di vedere la parte acquea del mondo”. Comincia così con uno dei più folgoranti incipit della letteratura il “Moby Dick” di Melville.
Per conto mio a riva ho parecchi interessi e la barca nemmeno è a punto così il 25 aprile non avendo nulla in particolare da fare ho pensato di rinfrescarne i portelloni di legno.
Comincio. Ha quattro portelloni la mia barca, finisco di scartavetrare il terzo quando la mano nel suo movimento di andirivieni incontra una scheggia proprio sull’ultima stecca e vi si infigge; è una scheggia di multistrato marino di circa sette cm. Il suo ingresso nel palmo non mi causa dolore, piuttosto la sensazione di un inoculo insidioso; guardo la mano, il frammento fuoriesce come le frecce degli indiani quando nei film colpiscono i nostri; lo estraggo e verifico che la mano non sanguini; non sanguina.
Oltre alla già detta sensazione di invasione arbitraria continuo a non sentire dolore così con la sinistra finisco di scartavetrare il quarto portellone poi ripongo gli attrezzi e vado al pronto soccorso.
– E’ allergico, ha problemi diabetici, cardiaci…? – chiede l’infermiera di turno
– No.
Il dottore non c’è, quando arriva mi accorgo che stava dormendo; gli chiedo di aprire la ferita e controllare se vi siano schegge.
– Meglio di no, se ci sono verranno in superficie da sole. – prescrive un antibiotico, dice all’infermiera di medicare e va via.
Nei tre successivi giorni la mano rimane gonfia, ho difficoltà a muoverla, dalla ferita fuoriescono piccolissimi frammenti di schegge.
Il quinto giorno continua a farmi male, torno al pronto soccorso dove trovo lo stesso medico dell’altra volta. Voglio che me la apra e controlli cosa c’è.
– Va bene. – fa lui.
Mi stendo sul lettino e comincia a incidere. Gli dico che mi sta facendo o male.
– Tanto o poco…?
– Tanto…
– Allora facciamo un’anestesia… – sento l’ago entrare nella mano.
Riprende a incidere e a spremere; guardo solo alla fine, il lenzuolo è rosso di sangue e siero.
– Ecco fatto la ferita è pulita ma lei continui con l’antibiotico.
Il giorno dopo la mano non è più così gonfia ma non piego il pollice, se lo faccio sento una fitta lancinante; dalla ferita continuano a fuoriuscire piccolissimi frammenti di legno, li tolgo con l’ago disinfettato sulla fiamma.
La notte successiva dormo sufficientemente tranquillo; l’indomani continuo a non muovere il pollice. Nella serata a 3-4 mm dalla superficie vedo apparire un agglomerato nero che reputo un ulteriore frammento, cerco di agganciarlo con l’ago, inutilmente; decido di immergere la mano in acqua calda così da ammorbidire i tessuti.
Dopo l’immersione la pelle è soffice e dilatata così tento un altro sistema; premo con le dita le zone circostanti la ferita in modo da favorire l’espulsione di quello che c’è; fa male ma qualcosa si muove. Poi non credo ai miei occhi; come un missiletto con poca carica una scheggia acuminata di 3 cm schizza fuori e ricade sul palmo; eccola.
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Domenica finirò di verniciare i portelloni poi prenderò il largo per un po’.

Colours

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Non tutto è perduto se ci restano i colori. Non tutto è perduto se in tasca ci resta il giallo per il grano, il rosso per i papaveri e l’azzurro per il mare.
Usiamoli allora, coloriamo! Tutto ciò che ha colore è degno di vivere, i colori sono ponti, l’arcobaleno lo è. Sono ciottoli emersi buoni per guadare un torrente, testimoni da prendere a volo per proseguire una corsa, polline disperso alla ricerca di un substrato che sia l’ Islanda, il cratere di un vulcano, il deserto, il fondo del mare.
Con i colori negli occhi persino la morte non è più definitiva ma diventa un tragitto d’autobus, il percorso interessantissimo tra una fermata nota e un’altra che non conosci.

La macchia mediterranea precipita nel mare verde smeraldo. Tutto è luce in questa terra bruciata, tutto incantato e magico; verrebbe voglia di tuffarsi nel verde cristallino che è laggiù. Infrangerne la superficie, immergersi e valicare il confine con lo scibile.

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Due alberi sulla cima di una montagna di massi brulli. Uno più grande e possente l’altro esile ma sempre forte. Vicini chissà, per darsi una mano quando serve ma distanti e autonomi, si godono il panorama e il mare lontano; sopra i sassi si crogiolano le lucertole.

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Nuvole gonfie e pulite, un prato di fiori gialli, sullo sfondo i contrafforti grigi una fabbrica che mai è sembrati così lontana. Se ne intravedono solo i lineamenti, eppure esiste anzi è in piena attività; ma ora è una linea grigia annegata in un mare di luce.

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La burrasca è da poco finita. La linea increspata dell’orizzonte, la spuma delle onde, la riva da dove tutto parte e dove tutto arriva, i relitti, gli odori dell’alga strappata al fondale. Tra un po’ tornerà l’azzurro ma ora i colori sono tenui di quiete ritrovata.

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La collina e più giù il promontorio con la torre di avvistamento. Il mare azzurro, il cielo limpido, la luce che abbaglia. Sulla destra una quercia, un fico d’india. Ancora più in basso il dirupo; tira un sasso e lo vedrai perdersi nella voragine.

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Grigie le città, grigi i palazzi, grigie le strade; abbiamo troppo grigio attorno per non cercare ristoro nei colori.

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